Archivio per la categoria presa di coscienza

24 giorni.

Il 2012 è iniziato da 24 giorni ed ha già sconvolto la vita mia e di quelli che la vivono con me.

Siamo alle soglie di una guerra civile, le navi da crociera affondano facendo strani inchini e la lode all’università non conterà più nulla.

Praticamente il caos.

E da 24 giorni ad oggi sono così tante le cose che sono cambiate che mi sembra che l’anno appena iniziato stia volgendo già al termine. Al punto da buttare giù qualche bilancio. O ricordo. O semplice sensazione.

L’alternarsi frenetico di gioia e paura nelle vene, i grumi di ansia sul petto e nella pancia, le visite mediche, le brutte e le belle notizie, i percorsi lunghi, i percorsi che per fortuna sono terminati, i miei nuovi ragazzi e la nuova missione, i libri che riempiono la nostra libreria, le serate a casa e quelle che ti toccano fuori, i concerti dei Radiohead e quello dei Cure a Roma, gli amici che restano, quelli che arrivano, quelli che decidono di andare via, i fidanzati che vanno e quelli che arriveranno, la birra artigianale e la concettina condita di crauti e risate, i viaggi disegnati, le lunghe giornate al mare anelate, il caldo di una domenica mattina al sole di Molfetta con il mare cristallino, i nuovi obiettivi, quelli acquistati e quelli da raggiungere, le vecchie cose da buttare o da regalare a chi ne ha bisogno, la caviglia che ancora fa male e un deodorante naturale dal profumo inebriante, le chiacchiere e le fotografie che riempiono il mio hard disk esterno e tanti desideri da esaudire. E poi 33 candeline da spegnere tra due settimane. E la voglia di tornare a Parigi che mi fa battere il cuore.

Oggi gira così. Con un po’ di febbre addosso e qualche goccia di pioggia appiccicato al vetro della mia camera.

In sottofondo Bistro Fada – Stephane Wrembel

 

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Quando certe canzoni creano dipendenza.

Io non lo so perchè ma non smetto di ascoltare questa canzone da giorni.
E’ bella, bellissima. E’ intima, la sento intima. Intimissima.
E non smetto neanche di averla in testa quando lo stereo o le casse del computer sono spenti.
Mi emoziona, mi piace, mi piace un sacco.
Automaticamente è diventata la mia canzone preferita di questo artista che preferisco già tanto.

E’ il caso di dirlo. Amo Dente.

Buon ascolto.

In sottofondo la suddetta canzone che crea dipendenza.

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Mipiace/nonmipiace.

Mi piace.

Il sole che si specchia sul piumone appena apri la finestra.
La kinder paneciok nel caffelatte nella tua tazza muccata al mattino.
Una passeggiata tra le bancarelle del mercato del sabato mano nella mano con il tuo fidanzato.
Una busta piena di profumatori per ambienti al gusto di fresia, gelsomino e agrumi.
Le chiacchiere e le risate sempre sotto il sole, sempre con lui, sempre con le mani incrociate.
Due ragazzini abbracciati per strada, con le cartelle buttate a terra.
Il volto rilassato dei ragazzi all’uscita di scuola. Di sabato. Che bello.
Due amiche in tuta da ginnastica, con una lettera in mano da leggere insieme, mentre corrono intorno ai primi alberi in fiore.
La felicità di un bimbo con il grembiulino blu tutto stropicciato perchè la sua mamma, all’uscita di scuola, gli ha fatto una sorpresa: un pacco di figurine per il suo album.
Il ricordo dell’odore delle figurine appena scartate quando la mia mamma me le faceva trovare all’uscita di scuola. Quando il mio grembiulino, tutto stropicciato, era bianco.
I miei genitori che parlano dei Rolling Stones a tavola e mio padre, che di musica, non ne sbaglia una.
La voce di De Andrè in sottofondo.
Il pensiero di un concerto imminente. Uno dei più attesi. E l’idea delle foto che scatterò.
L’attesa trepidante di una serata in mostra.

Non mi piace.

Il Giappone, il terremoto, lo tsunami, le centrali nucleari. Se i Maya avranno avuto ragione sarà solo grazie all’uomo.
L’umore di chi amo distorto da risposte che non arrivano.
L’eco di serate poco piacevoli che non ha senso ripetere.
La mancanza di condivisione.
Un locale in passato tanto amato. La puzza di fritto mista a qualcosa di non meglio identificato ha contaminato anche i miei organi interni.
L’esame di inglese.
Le rotture via mail di sabato pomeriggio.
Ma, più di tutto, le cose che non capisco.

E che forse è meglio non capire.

In sottofondo Dolcenera – Fabrizio De Andrè.

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(An)notazioni.

Ogni scelta è una rinuncia. – Dente –

Notare come le giornate, i pomeriggi, le serate, persino i weekend scorrano normali e felici, come se nulla fosse. Anche senza di me, per la fattispecie.

Notare come la mia assenza, l’assenza delle mie cose in casa, della mia voce nel telefono o nelle orecchie abbia la stessa consistenza di un velo trasparente ultrasottile.

Notare come la mia presenza avesse la stessa consistenza del piombo, sottoforma di sfera, legato ad una caviglia. Per la fattispecie.

Notare come le domande fossero l’apologia della retorica e il mio parere il manifesto dell’ignoranza. Subita, s’intende. Non è vero che si decide in due. A decidere è sempre e solo uno e, per la fattispecie, quell’uno non sono io.

Notare come il silenzio sia l’unica forma di comunicazione utilizzata con me. [Es. “Se tu scomparissi dalla mia vita, io ne morirei. E se invece fossi io a scomparire dalla tua?” Risposta non pervenuta. AKA: silenzio stampa.].

E notare tanta altra roba che di annotare non ho voglia..

Notare tutto questo mi fa specie. E rabbia. E mi rende delusa. E triste. E forse è giunta anche per me l’ora del silenzio.

Del resto a me i numeri pari non sono mai piaciuti, fossero arabi o romani.

Figuriamoci poi il numero due.

In sottofondo A Gothic Love Song – Current 93.

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Le ore.

Le ore fredde e quelle appena più tiepide.
Le ore gialle e poi d’improvviso, sorprendentemente, le ore bianche.
Le ore umide, quelle zuppe e quelle ventose, che ti scompigliano i capelli appena stirati.
Le ore sola nei tuoi nascondigli e quelle nella confusione di luci, campanelle, buste, pacchi e persone affannate, felici ma anche no.
Le ore a rimettere a posto sempre troppe cose e quelle in cui vorresti mettere solo disordine. Anche solo qualcosina.
Le ore a chiacchierare e quelle ad ascoltare.
Le ore in silenzio e quelle ad assordarsi di musica, vecchia, nuova, sconosciuta, ripetuta a memoria.
Le ore sul letto e quelle in cui vorresti solo ballare.
Le ore a bere birra senza sosta e quelle della tisana o della cioccolata bollente.
Le ore del the bianco, della mimosa e dell’olio di avocado sulla pelle umida.
Le ore a guardare fotografie e le ore a scattarle.
Le ore a scrivere e quelle a leggere.
Le ore ad architettare, a combinare, a immaginare, e poi, di botto, quelle in cui ti ritrovi a dover fare.
Le ore a guardare, ad osservare, a scrutare.
Le ore con la nebbia sul balcone e quelle, ormai poche, con i raggi bollenti.
Le ore dei massaggi, quelle della sauna e quelle in una piscina bollente. Tra mille bolle colorate.
Le ore con la gola in fiamme e quelle con la testa in fumo.
Le ore dei se, dei ma, dei forse e quelle dei chissà.
Le ore con la carta colorata, con i fiocchi e con il nastro adesivo appiccicato ovunque.
Le ore dei collant a pois e quelle dei collant blu elettrico.
Le ore a comprare il vino e quelle a chiacchierare col terzo piano.
Le ore piene e quelle vuote.
Le ore leggere e quelle pesanti.
Le ore sensate e quelle insensate.
E poi d’improvviso le ore inattese.
Belle. Brutte. Ibride.

In sottofondo Lope – Sad Lovers and Giants

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La valigia da disfare.

Da luglio la mia valigia alberga piena al centro della mia caotica stanza.
E’ lì, fin dai primi weekend al mare . L’ho vuotata e riempita per la lunga trasferta estiva al mare, poi a Parigi, poi di nuovo al mare. E lì è rimasta pronta a ripartire per lo scavo. Pronta a seguirmi ancora, da brava compagna.
E nel frattempo pensavo che prima di disfarla sarebbero passate, da oggi, almeno tre settimane.
Invece oggi eccomi qui a fissarla, davanti a me, seduta sul pavimento con le gambe incrociate e gli occhi lucidi.
E’ giunto il momento di disfarla.
Quel momento che non amo particolarmente, che non mi piace per niente, che odio con tutta me stessa.
Solitamente aspetto almeno una settimana prima di vuotarla del tutto. Comincio a togliere le cose che mi servono più urgentemente, con calma serafica, senza grossi traumi, e lascio lì tutto il resto a farmi un’ipocrita compagnia.
Così facendo è come se prolungassi l’eco del viaggio, se ripetessi ogni giorno a memoria gli appunti presi e le emozioni strappate, è come se ricordassi senza sosta per paura di perdere ogni briciolo del più insignificante particolare.
Così facendo è come se continuassi a viaggiare, se continuassi a illudermi di ripartire, se cercassi di scacciare la quotidianità appollaiata sull’uscio della porta, ai piedi del mio letto muccato, se la tenessi lontana qualche giorno ancora, magari una settimana.
Così facendo è come se accorciassi il tempo, è come se fossimo già pronte a ripartire, senza troppo attendere.

Oggi però è diverso.
Oggi non ce la faccio, non riesco ad illudermi e la quotidianità è più forte del solito.
Oggi so che quel viaggio non ricomincerà mai più.
So che molti di quei vestiti rimarranno inutilizzati, dimenticati sul fondo di qualche cassettone.
So che molte di quelle emozioni, di quegli appunti, di quegli insignificanti particolari non torneranno.
So che la valigia è ormai rotta, consunta, sbiadita.

Non voglio svuotarla.
Forse la lascio così, massì.
Piena.
E la porto giù in cantina, insieme a tutte le altre valigie. Quella dei giochi, quella dei quaderni e quella dei miei vecchi vestiti.
Lì dove il tempo si è fermato.
E per riviverlo basta scegliere solo aprire una zip.

In sottofondo la radiolina che trasmette le partite di calcio

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Non basta più.

Non una lacrima. Solo un senso di peso sullo stomaco, vuotato appena imboccata la strada diritta che costeggia la riva di sabbia e sale.
Non una lacrima. Solo tanta stanchezza nelle ossa e nei polmoni.
Non una lacrima. Solo un groviglio di dubbi, domande e certezze.
La vita cambia, i pensieri cambiano, i desideri cambiano, le persone cambiano, i sentimenti cambiano. Ed io con loro.
Me ne rendo conto ogni weekend, da qualche settimana a questa parte.
Non bastano le pietre, la terra, l’odore di umido, il senso di sorpresa costante, lo stomaco bruciato da un olio strano, il fresco della mattina appena nata, le chiacchiere rimbalzate nell’eco di notti sempre troppo brevi.
Non più.
Non se sono sola.
Non se lontano da lui, da lei, dai miei, dal mio cane, dalle mie giornate, dalle mie fotografie, dalle mie boccette di profumo in fila sulla mensola affollata, dalle mie parole scritte, pensate, disegnate, sognate, dagli amici, quelli veri, quelli seri, quelli vecchi e quelli nuovi, dai miei ragazzi a scuola, dalle strade della mia città, dalla musica a palla, dalla musica dal vivo, dalla musica sempre nelle orecchie, dai pranzi e dalle cene vere, dai sogni goduti, dai progetti costruiti ogni singola ora.
Oggi sono stanca di credere.
Oggi sono stanca di incazzarmi.
Oggi sono stanca di far finta di nulla.
Oggi sono stanca di essere comprensiva.
Oggi sono stanca di essere diplomatica.
Oggi sono stanca. Stanca di tante cose.
Cose per cui non c’è spazio nella mia vita.

Qualche giorno fa ho sognato un serpente.
E i miei sogni non sbagliano mai.

In sottofondo Sleeping with ghosts – Placebo

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Pietà. Questa sconosciuta.

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Citazioni esemplari.

Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente.

Italo Svevo

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Sex and the city, gli uomini, l’atarassia.

Eppure c’è Sex and the city.
Abbiamo guardato per anni i suoi episodi. Tutti. In tutte le ore del giorno.
Abbiamo collezionato i suoi episodi preziosamente. Per avere un punto di riferimento. Un vademecum da rivedere all’occorrenza.
Doveva essere tutto più facile, più chiaro.
Ma, a quanto pare, l’indottrinamento non è stato abbastanza efficace.
Le parole sono le stesse, le immagini sono le stesse, le lacrime sono le stesse, le speranze spezzate sono le stesse, le promesse mancate sono le stesse, i dolori poco più sù dello stomaco sono gli stessi, gli errori sono esattamente gli stessi.
Gli uomini sono gli stessi. Anche quelli che credevi diversi.
Hanno età diverse, stature corporee diverse, bellezze diverse, voci diverse, culture diverse, fanno lavori diversi, guidano automobili diverse, indossano vestiti diversi, ascoltano musica diversa.
Ma sono tutti esattamente uguali.
Sono gli stessi uomini che abbiamo incontrato nelle nostre vite passate, che abbiamo sentito citare dalle nostre amiche migliori, che abbiamo letto sui giornali scandalistici, che abbiamo dimenticato con tutte noi stesse, ma evidentemente non ci hanno mai abbandonate. Loro che ci hanno lasciate perchè siamo troppo perfette. Perchè siamo la donna giusta nel momento sbagliato. Perchè siamo troppo per loro. Perchè vogliono solo scopare. Perchè non sanno scopare. Perchè hanno smesso di amare. Perchè non l’hanno mai fatto. Perchè non sanno farlo.
Sono gli stessi uomini che ci hanno abbandonato sole in stazione, che si sono tenuti i nostri orecchini dimenticati sul comodino dopo una serata che credevi fosse un inizio.
Sono gli stessi uomini con cui almeno una volta hai organizzato un matrimonio, dei figli, un cagnolone e una splendida casa piena di fotografie.
Sono gli stessi uomini per cui hai acquistato una quantità indefinibile di vestiti e scarpe, che adesso osservi e non sai se metterai mai, o mai più.
Sono gli stessi uomini che ti hanno promesso, che ti hanno promesso, e che ti hanno promesso ancora. Ma non hanno mai mantenuto.
Sono gli stessi uomini con i quali hai prenotato una vacanza che probabilmente faranno con un’altra.
Sono gli stessi uomini che hanno tolto tutto il mondo, pezzo dopo pezzo, sotto il tuo tacco 12.
Sono gli stessi uomini che hanno desaturato le pareti delle tue giornate infinite.
Sono gli stessi uomini che ti voltano le spalle e che sei certa non sentirai più.
Sono gli stessi uomini che hanno paura di prendersi sul serio.
Sono tutti quegli uomini imperturbabili dinanzi alle passioni.
Ottusamente convinti che stando con te dovranno rinunciare alla loro vita passata.

Sono tutti quegli uomini veri.
Esattamente come la finzione.

In sottofondo Wrong – Depeche Mode

Dedicato a Te che non sei tutto questo.
E a Te che meriti il contrario di tutto questo.

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