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Che cos’è l’amor?

Non scrivevo da tanto. Non su questo blog. Non con una tastiera.
Ma il 2013 ha già esaurito il suo primo mese di vita ed oggi mi è venuta voglia di scrivere.

Sarà che oggi è stata una giornata particolare, che non avrei immaginato di vivere così. Con lo stomaco impastato di gioia, soddisfazione, malinconia. Sarà che quattro mesi fa ho avuto paura. Paura di non farcela, di dover mollare tutto, di aver sbagliato strada un’altra volta. Sarà che ad oggi quella paura mi ha gonfiato il cuore di gioia. Perchè le cose sudate hanno quel sapore agrodolce assai buono. Sarà che ho tagliato un altro traguardo, con il sorriso in faccia, nuovi amori e qualche dieci.

Sarà che ogni giorno è diverso dall’altro e che non sai mai quello che ti aspetta. Quello a cui dovrai rispondere, quello che chiederai incuriosita, quello che era meglio non sentire. Sarà che è bello vivere una vita imbevuta di altre vite così diverse dalla mia, così rumorose, così curiose, così ormonali.

Sarà che è bello raccogliere i segreti, ascoltare i racconti, veder colorare le guance di rosso porpora, sentire piombare il silenzio e scoprire che neanche troppe vite fa quelle guance color porpora erano le tue.

Sarà che i litigi non mi piacciono e che preferisco il silenzio a mille lance tra le dita.

Sarà che ognuno di noi ha almeno uno specchio in cui riesce a riflettersi in qualche parte del mondo e che è bello leggere quello che il battito dei tasti ti confida.

Sarà che è sempre bello il rumore del battito d’ali di una farfalla nello stomaco, anche se quello stomaco non è il tuo.

Sarà che vivo in un mondo tutto mio.

Sarà che il futuro è sempre troppo lontano e che il presente vola via sempre troppo velocemente.

Sarà che posso vivere ogni giorno un’adolescenza nuova ed è una magia troppo bella.

Sarà che la musica è una magia ancor più bella.

Entriamo in tante storie.
Viviamo tante storie.
Chiudiamo tante storie.
Durano qualche mese, un anno, se sei fortunata tre anni.
E cicatrizzano, una dopo l’altra, sul nostro corpo.

Al mio specchio e alle sue farfalle nello stomaco 🙂

In sottofondo Bad News – Kanye West

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24 giorni.

Il 2012 è iniziato da 24 giorni ed ha già sconvolto la vita mia e di quelli che la vivono con me.

Siamo alle soglie di una guerra civile, le navi da crociera affondano facendo strani inchini e la lode all’università non conterà più nulla.

Praticamente il caos.

E da 24 giorni ad oggi sono così tante le cose che sono cambiate che mi sembra che l’anno appena iniziato stia volgendo già al termine. Al punto da buttare giù qualche bilancio. O ricordo. O semplice sensazione.

L’alternarsi frenetico di gioia e paura nelle vene, i grumi di ansia sul petto e nella pancia, le visite mediche, le brutte e le belle notizie, i percorsi lunghi, i percorsi che per fortuna sono terminati, i miei nuovi ragazzi e la nuova missione, i libri che riempiono la nostra libreria, le serate a casa e quelle che ti toccano fuori, i concerti dei Radiohead e quello dei Cure a Roma, gli amici che restano, quelli che arrivano, quelli che decidono di andare via, i fidanzati che vanno e quelli che arriveranno, la birra artigianale e la concettina condita di crauti e risate, i viaggi disegnati, le lunghe giornate al mare anelate, il caldo di una domenica mattina al sole di Molfetta con il mare cristallino, i nuovi obiettivi, quelli acquistati e quelli da raggiungere, le vecchie cose da buttare o da regalare a chi ne ha bisogno, la caviglia che ancora fa male e un deodorante naturale dal profumo inebriante, le chiacchiere e le fotografie che riempiono il mio hard disk esterno e tanti desideri da esaudire. E poi 33 candeline da spegnere tra due settimane. E la voglia di tornare a Parigi che mi fa battere il cuore.

Oggi gira così. Con un po’ di febbre addosso e qualche goccia di pioggia appiccicato al vetro della mia camera.

In sottofondo Bistro Fada – Stephane Wrembel

 

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Il mondo che vorrei.

L’unico mondo reale.
L’unico mondo possibile.
L’unico mondo sincero.
L’unico mondo sensibile.
L’unico mondo da cui l’uomo deve imparare.

L’unico mondo che vorrei.

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Una dedica con il singhiozzo.

Un paio d’anni fa e poco più.
Una strada lunga e scura dritta nella pancia della terra più interna.
Una strada lunga e scura, un’auto piena di amici.
Una strada lunga e scura, un’auto piena di amici, tante parole e risate che neanche le conti.
Era una sera di primavera. Un mercoledì, o un giovedì, forse un venerdì sera verso l’ennesimo concerto.

Un paio d’anni fa e poco più, nell’oscurità di quel frastuono, ascoltai in anteprima Cade la pioggia dei Negramaro. Di lì a poco sarebbe uscito il nuovo album ed io ascoltavo un pezzo in anteprima. Roba da rimbalzare come una pallina inferocita.
Ma poco mi importava del pezzo a dir la verità. Non in quell’istante buio, chiassoso e primaverile.
Ciò che contava era la telefonata, il pensiero, la voglia di condivisione, il desiderio di regalare qualcosa che sarebbe rimasto. Perchè ascoltare quella canzone, di lì in poi, avrebbe suggerito un’associazione immediata a quella telefonata, a quella persona, a quel regalo. Con sorriso a seguire.

Un paio di giorni fa è stato pubblicato su internet il nuovissimo singolo dei Negramaro, Sing-hiozzo. E, nonostante la canzone sia cambiata, l’associazione a quella stessa persona è stata immediata. Non so perchè.
Forse perchè questo singolo, l’altroieri proprio non me lo aspettavo, e mi è sembrato un regalo. Esattamente come quel regalo al telefono. Forse perchè si tratta dei Negramaro, forse perchè è autunno, forse perchè fuori era buio e dentro c’era frastuono. Forse perchè ho trattenuto il fiato senza rendermene conto per 4 minuti e un secondo e poi ho sorriso per chissà quanti altri minuti fissando uno schermo immobile. Forse perchè vuoi bene come quel giorno e te ne accorgi adesso più che mai. Forse perchè le persone che vedi poco hanno un valore inestimabile e ineguagliabile. Forse perchè hai voglia di quei giorni là. E anche di quelle sere in quattro sotto la grandine, nel pub irlandese preferito. Forse perchè, hai visto mai. Forse perchè sta per cambiare qualcosa.
Perchè si sa, i Negramaro, per noi, sono come i mosconi in casa: portano sempre novità.

Io sono pronta.
E nel frattempo canticchio di già.

In sottofondo Head down – Nine Inch Nails

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La valigia da disfare.

Da luglio la mia valigia alberga piena al centro della mia caotica stanza.
E’ lì, fin dai primi weekend al mare . L’ho vuotata e riempita per la lunga trasferta estiva al mare, poi a Parigi, poi di nuovo al mare. E lì è rimasta pronta a ripartire per lo scavo. Pronta a seguirmi ancora, da brava compagna.
E nel frattempo pensavo che prima di disfarla sarebbero passate, da oggi, almeno tre settimane.
Invece oggi eccomi qui a fissarla, davanti a me, seduta sul pavimento con le gambe incrociate e gli occhi lucidi.
E’ giunto il momento di disfarla.
Quel momento che non amo particolarmente, che non mi piace per niente, che odio con tutta me stessa.
Solitamente aspetto almeno una settimana prima di vuotarla del tutto. Comincio a togliere le cose che mi servono più urgentemente, con calma serafica, senza grossi traumi, e lascio lì tutto il resto a farmi un’ipocrita compagnia.
Così facendo è come se prolungassi l’eco del viaggio, se ripetessi ogni giorno a memoria gli appunti presi e le emozioni strappate, è come se ricordassi senza sosta per paura di perdere ogni briciolo del più insignificante particolare.
Così facendo è come se continuassi a viaggiare, se continuassi a illudermi di ripartire, se cercassi di scacciare la quotidianità appollaiata sull’uscio della porta, ai piedi del mio letto muccato, se la tenessi lontana qualche giorno ancora, magari una settimana.
Così facendo è come se accorciassi il tempo, è come se fossimo già pronte a ripartire, senza troppo attendere.

Oggi però è diverso.
Oggi non ce la faccio, non riesco ad illudermi e la quotidianità è più forte del solito.
Oggi so che quel viaggio non ricomincerà mai più.
So che molti di quei vestiti rimarranno inutilizzati, dimenticati sul fondo di qualche cassettone.
So che molte di quelle emozioni, di quegli appunti, di quegli insignificanti particolari non torneranno.
So che la valigia è ormai rotta, consunta, sbiadita.

Non voglio svuotarla.
Forse la lascio così, massì.
Piena.
E la porto giù in cantina, insieme a tutte le altre valigie. Quella dei giochi, quella dei quaderni e quella dei miei vecchi vestiti.
Lì dove il tempo si è fermato.
E per riviverlo basta scegliere solo aprire una zip.

In sottofondo la radiolina che trasmette le partite di calcio

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I segni di un mercoledì.

Dello scorso mercoledì porto ancora i segni addosso.
Un livido sul ginocchio, il caldo sciolto sulla pancia, due punture di zanzara sul braccio destro.
La scia di una brezza timida lungo la schiena bagnata, l’odore del ferro arrugginito nei palmi delle mani, il sapore del doppio malto sulle labbra tumide di afa, il profumo del cocco incastrato tra i capelli e quello del muschio bianco lasciato per strada da chissà chi.
Il fragore delle risate lì dove l’anima si rilassa più rapidamente e il cinguettio di doppi sensi tra i bicchieri e le posate di un tavolo rosso e blu a strapiombo sul mare.
Lo stridore di taluni desideri che forse non combaciano con il resto lungo le gambe e la bramosia di nuovi ricordi da conservare nel cassetto più intimo, tra la lingerie e le magliette colorate.
E poi la voglia di rivederlo prendere vita e muoversi, quel mercoledì, nei medesimi luoghi in cui è nato, ci ha sorriso e poi è morto.

In sottofondo Two weeks – Grizzly Bear

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Bonne nuit.

Una notte non lontano dal mare.
Una notte vicinissima al mare, tra una pista ciclabile che forse sarà e giovani coppie di sposi a bordo di roboanti treruote.
Una notte di un luglio che sa di afa e salato, tra le 22 e le 3 di notte, o forse più.
Una notte, due automobili, cinque anime. E le risate, le parole, i rumori a rincorrersi nell’ombra delle loro eco quando tutto è buio. Quando tutto è rosso. Quando tutto comincia a vedersi dopo cinque minuti, forse sette.
Una notte su strade senza asfalto, tra erbacce e secchi vuoti, illuminati da quattro luci messe in fila.
Una notte in una fabbrica semiabbandonata, tra vetri rotti, lavelli impilati senza armonia e scale che non portano da nessuna parte. Almeno lì, dove gli alberi crescono sotto i tetti di cemento armato, alti e severi.
Una notte in un posto stregato, ammaliato e ammaliante, tra sogni che si sono avverati e sogni che si avvereranno. Tra paure, tra ombre lente, tra cani che abbaiano tristi, per la loro vita serrata lì dove la vita smette di vivere alle 18 di ogni giorno.
La notte dei tre CRE: crest, cremino, crecker.
Una notte sul lungomare, di fronte a un baretto che fa rumore, su una panchina a dire cose, a raccontarsi pezzi di storie, a immaginare un inverno per fortuna ancora troppo lontano.
Una notte su treppiedi montati male, dietro occhi che imprimono forti emozioni.
Una notte di nascosto, dove si sta bene, ma si ha paura. Dove si scappa, ma non si vede l’ora di tornare. Dove si scacciano le streghe e si salutano le fate.
Una notte, quella notte.
Una notte, domani notte.

In sottofondo Lighthouse – Interpol

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Metti una calda notte d’estate.

Metti una calda notte d’estate.
Con una maglietta leggera di cotone e un vento pungente e dissetante sulla pelle.
Tra l’ansia di ogni giorno scivolato e quella di ogni giorno immaginato.
A ridere, a chiacchierare, a camminare quando anche le vene e le caviglie ti paiono più leggeri. Almeno per qualche ora.
Su strade deserte color giallo ocra. Su strade sussurrate, che a tratti ti sembra di violare.
Tra inni neroazzurri e una Mini Cooper rossa, ferma, fiera, dal tono nettamente british.
Con i piedi incastrati su mattonelle alternate, bianche e rosse.
Con i piedi misurati sui bordi dei marciapiedi, tra barchette di carte abbandonate.
Con i cavalletti sotto braccio. Quelli anelati, quelli prestati, quelli mai provati, quelli made in China e quelli forse da rivendere.
Tra fotografie mai sbagliate, fotografie azzeccate, fotografie sperimentate, fotografie costruite, fotografie pensate e fotografie progettate, mentre il giorno corrode i segni nuovi sul cuscino.
Tra la gelosia, il matrimonio, la libertà.
Tra uno spritz, un capperone e una mozzarellina al sapore di niente.
Tra una pizza Moulin Rouge e una birra gratis all’ombra di un giardino di plastica.
Tra Claudio Lolli, Stefano Rosso, geriatria e The XX.
E via, ricomincia da capo.
Metti questa calda sera d’estate.
E ricercala ogni notte.
Esattamente come stanotte.

In sottofondo You don’t know love – Editors

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